La carne dell’anima: la pittura come urlo

La pittura di Paolo Battistutta è un’esposizione brutale dell’essere umano al di là del visibile, oltre l’estetico, dentro un abisso dove carne e spirito collassano.

Un espressionista, ma non nel senso codificato della storia dell’arte, il suo espressionismo non ha la malinconia di Munch, né la spiritualità straziante di Schiele è piuttosto un grido animale, un trauma reso immagine, una carne che si ribella alla forma.

Il volto, per lui, non è solo ritratto: è percosso dalla pittura. Le bocche urlano, i corpi si torcono, si disfano, si macchiano di vita e di morte insieme; la figura umana diventa un campo di battaglia, un teatro di tortura e desiderio, in cui l’identità si frantuma.

Per Battistutta, la pittura è un gesto di violenza, ma di quella violenza che cerca verità. E allora eccolo, il suo pennello, non accarezza la tela, ma la graffia: l’immagine nasce dal conflitto, non dalla contemplazione e le sue figure sembrano precipitare fuori dalla pelle, dissolversi nella deformità, come se l’anima, nel tentare di uscire, strappasse via la carne.

Si percepisce l’urto tra il dentro e il fuori, tra ciò che siamo e ciò che temiamo di essere. Il volto, centro dell’identità occidentale, viene deformato fino a diventare muso, maschera, crepa, gomitolo di colore, come se solo sfigurando si potesse avvicinare l’essenza. Non c’è pietà, ma c’è empatia. Perché l’orrore che Battistutta ci mostra è lo stesso che tutti, in certi momenti, sentiamo dentro: la fragilità della carne, la tensione tra eros e thanatos, il desiderio di essere visti e la paura di esserlo davvero. Ogni suo volto ci guarda e ci giudica, anche se privo di occhi.

Forse proprio perché ne è privo. L’influenza della fotografia, del cinema, della cronaca nera, della religione, della letteratura (soprattutto Eliot, Proust, Nietzsche) si fonde nella sua pittura in modo organico e sporco, senza alcun intento citazionista.

Un’arte che non chiede consenso, chiede coraggio, ci sfida a guardare ciò che evitiamo. In un’epoca come la nostra, che anestetizza il dolore e sterilizza l’emozione, si pone come un pittore capace di costringerci a sentire, che non offre solo bellezza, ma autenticità, non dà risposte, ma ci sbatte in faccia le domande più scomode: Che cosa resta di noi, quando togliamo la pelle della convenzione?

Chi siamo, quando la figura crolla? Battistutta ci obbliga a rispondere non con le parole, ma con il corpo e lo fa usando la pittura come una lama: tagliente, profonda, senza anestesia.

Un’arte che lacera per guarire, che deforma per rivelare. In fondo, la sua violenza non è fine a se stessa: è la rabbia disperata di chi vuole ancora credere che l’uomo sia qualcosa di più del suo dolore.

Prende l’anatomia e la consegna al caos, ma è un caos pieno di senso, come quello da cui nasce la vita, le sue opere sono stanze chiuse, prive di aria, in cui il soggetto è inchiodato, eppure, da quella prigione, qualcosa trabocca: il vero, quella parte inconfessabile di noi, che urla solo quando nessuno guarda. Il gesto pittorico, nei suoi quadri, è insieme martello e carezza.

La violenza non è mai gratuita: è la forma che la verità assume quando non riesce più a tacere, in ogni pennellata, in ogni colata di colore, c’è un’eco di dolore antico, non solo dell’uomo moderno, ma dell’uomo eterno, di colui che ha coscienza della morte, ma fame di infinito. Il corpo è il teatro del tempo: nasce, si consuma, si contorce, ama, odia, muore.

Ma nel momento stesso in cui lo mostra come fragile e passeggero, lo rende sacro, un uomo che gronda, che si piega, che implode… ma che resiste, come se dentro l’informe ci fosse una scintilla d’assoluto. Non c’è quiete nei suoi quadri, ma c’è verità e questa verità non consola, non redime, ma illumina, come un incendio.

 

 

Pasquale Lettieri

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